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"G" RACCONTA: DAI LIBRI - Museo del G

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"G" RACCONTA: DAI LIBRI

g racconta


"G" RACCONTATO


In questo caso non è "G" che racconta, ma che viene raccontato. Nel 2007 un giovane scrittore di fantascienza, Andrea Viscusi, scrisse un romanzo alcune pagine del quale ospitavano un clochard di nome Gianni Greco, e nella storia erano coinvolti anche alcuni personaggi del Sondazzo.
Il romanzo, opera giovanile di Viscusi, rimase inedito, ma restano queste pagine, spedite via mail nell'ottobre 2007, quale omaggio di un fedele ascoltatore proprio nel momento cruciale in cui il "G",, lasciata la radio, stava iniziando il suo ciclo televisivo.




Font era a Milano già dal giorno prima.
Nonostante avesse sempre considerato di dover aggirare le Alpi per facilitare la sua marcia, si era reso conto che, procedendo in bicicletta lungo il percorso delle ferrovie, la difficoltà dell’attraversamento delle montagne era annullata. Anzi: attraversare le Alpi servendosi un traforo era stato più che facile; al contrario, una volta in territorio italiano, il suo procedere si era fatto più faticoso.
Dopo essere partito da Nimes, aveva oltrepassato Marsiglia, attraversato il Principato di Monaco ed era entrato in Italia da qualche parte vicino Genova (o almeno, quella era stata la prima città che già conoscesse da cui era passato). Ma le sue conoscenze geografiche l’avevano tradito: dato che considerava di poter risparmiare tempo ed energia attraversando la pianura padana piuttosto che le colline svizzere, Font aveva creduto che una volta in Italia si sarebbe ritrovato istantaneamente in una vasta distesa rigogliosa e temperata. Ma non aveva pensato agli Appennini, a quanto fosse faticoso pedalare per quegli altipiani irregolari anche seguendo il percorso dei binari, ed al fatto il clima era anche peggiore di quello che aveva sopportato dalle sue parti. Dopo Genova, si era diretto verso Milano in quanto era l’unico punto di riferimento di sua conoscenza, ed era sicuro che una volta là avrebbe saputo orientarsi, magari seguendo una delle linee che dalla stazione centrale dovevano dipartirsi per attraversare tutta la pianura..
Aveva passato le prime due notti attanagliato dal freddo, e aveva sentito di aver ripreso a perdere in salute: il naso gocciolava copiosamente, aveva attacchi di tosse catarrosa e gli bruciavano gli occhi. In più, le sue scorte erano praticamente esaurite. Tutti questi elementi, oltre alla colossale stanchezza di due giorni di ciclismo più che professionistico, avevano contribuito alla sua decisione di fermarsi un giorno, solo un giorno, in quella città, per riposarsi e rifocillarsi.
Ma una volta trascorso quel primo giorno, si era svegliato quella mattina con gli occhi completamente incollati. All’inizio, era rimasto terrorizzato: non che credesse di essere cieco, ma temeva che se non fosse riuscito a pulirsi in tempo ed adeguatamente, la situazione sarebbe solo peggiorata. E la tosse sembrava peggiorata. E gli sembrava di avere la testa troppo grande rispetto al cervello che conteneva, che sentiva cozzare contro le pareti della calotta cranica ad ogni passo. E le gambe sembravano non aver ancora riassorbito i depositi di acido lattico che in seguito all’incredibile attività fisica degli ultimi giorni si erano creati in corrispondenza di ogni muscolo, sicché ogni movimento gli provocava fitte di formicolio. Doveva trovare una fontana e darsi una sciacquata. Forse gli avrebbe fatto bene, anche solo come sveglia.
Si trovava nei pressi della stazione centrale: era giunto lì seguendo, come sempre, i fasci più consistenti di binari. Aveva avuto anche una discreta fortuna fino a quel momento, perché era riuscito a depredare un distributore automatico di snack rimpinguando così le sue scorte. Aveva passato quelle due notti rifugiato nella cabina (presumibilmente destinata ad un qualche genere di bigliettaio, anche se non ne capiva l’utilità visto che erano presenti macchine automatiche che li erogavano) di una stazione della metropolitana. Era rimasto sorpreso nel constatare che, un paio di volte al giorno, un treno passava anche di lì, anche se dubitava che fosse in effetti frequentato. Durante il suo viaggio in bicicletta, aveva constatato che il traffico, sia stradale che ferroviario, era praticamente inesistente. Lui era uno dei pochi che ancora sentiva il bisogno di spostarsi, gli altri avevano già raggiunto la loro meta o avevano rinunciato. Per tenerla nascosta mentre dormiva, aveva tenuto la bici di Lada (per modo di dire, perché non era nemmeno sua) sotto il bancone della cabina, ed aveva comunque usato il laccio di una sua scarpa per legare un pedale al suo polso, in modo da accorgersi se fosse stata mossa.
Si stropicciò gli occhi per riuscire ad avere una visione almeno approssimativa del mondo, e nel farlo si ritrovò le mani intrise di appiccicume giallognolo e maleodorante, che strofinò via sul retro dei jeans. Poi, conducendo a braccia la bicicletta, tornò verso le scale che conducevano al padiglione principale della stazione, dove da qualche parte sapeva di poter trovare una fontana di cui aveva già fatto uso alcune volte. Era riuscito ad aprire parzialmente soltanto l’occhio destro, e la vista era appannata, ma ci vedeva abbastanza da poter percorrere in sicurezza la scalinata.
La stazione era pressoché deserta, e Font aveva già notato che, anche se con l’avanzare della giornata qualcuno sarebbe transitato di lì, fondamentalmente quella e tutte le altre stazioni che aveva passato rimanevano luoghi abbandonati, occupati soltanto, come da sempre, da branchi di derelitti senza dimora. Come lui.
Individuò la fontana alla quale puntava ed notò anche che intorno c’era un gruppetto di persone. O meglio: derelitti, appunto. Si trattava probabilmente di alcuni barboni che passavano insieme la notte per potersi scaldare a vicenda. Avvicinandosi con fare casuale Font sentì che emanavano un lezzo penetrante di sudore e sporco. Poi pensò che sicuramente il suo stesso odore non era dissimile. I barboni stavano schiamazzavano sciacquandosi a turno la faccia e bevendo dalle mani. Doveva essere bello per loro, che la stazione fosse ormai un luogo desolato e nessuno li guardasse con sospetto, disprezzo, pietà o tutte queste.
Assorto in questi pensieri, Font non si accorse di aver continuato a camminare e di essere ormai a pochi passi dal gruppo.
Uno di loro lo notò e lo apostrofò: “Ohé, che vuoi? Hai qualcosa da mangiare?”
Font rimase per un attimo confuso da quell’approccio aggressivo e lagnoso insieme: gli stava dicendo di andarsene ma, casomai avesse del cibo, di offrirglielo liberamente. Poi ebbe paura che i barboni potessero derubarlo, soprattutto della bicicletta e del cellulare (su cui sperava di poter fare affidamento in futuro) e montò frettolosamente in sella. Cominciò a pedalare rapidamente nella direzione opposta, ma dopo pochi metri il dolore dei muscoli, la scarsa visuale, le difficoltà respiratorie e lo stordimento dovuto al sonno e alle sue precarie condizioni di salute si combinarono insieme e lo fecero precipitare a terra. Batté la tempia ed il ginocchio destro sul pavimento pietroso e una delle manopole del manubrio gli si conficcò nello stomaco. Con la coscienza ormai alterata dal dolore e dall’intontimento, non riuscì a controllarsi e vomitò un fiotto di succhi gastrici bianchicci in mezzo alle sue braccia. Poi abbandonò il capo su una mano, con il naso inzuppato nella pozza acida che aveva appena creato.
Prima di perdere definitivamente i sensi, sentì uno dei barboni gridare qualcosa in italiano. E, forse perché in quell’attimo finale le sue percezioni si erano acuite, forse perché l’italiano non era così differente dallo spagnolo, riuscì a capirlo: aveva detto “prendetelo”.

-34 (sera)
Font si svegliò, e prima di tornare del tutto cosciente il suo cervello registrò alcune informazioni vitali: era buio; non aveva freddo; non sentiva il dolore di ossa rotte; c’era qualcuno intorno a lui. Poi ricordò gli ultimi secondi prima del suo svenimento, ed in un secondo fu preso dalla paura. La testa gli si riempì dei ricordi di quanto era avvenuto e cominciò a pulsare, come se si fosse ricordata solo in quel momento che il suo compito attuale era fargli male.
I barboni. Dovevano averlo circondato e derubato. E adesso dov’era? Dove l’avevano abbandonato? E chi c’era con lui?
“Buongiorno principino!” sentì dire da una di quelle voci che sciamavano intorno a lui. Era impastata e conduceva con sé un sentore di alcool. Ed aveva parlato in italiano. Le altre voci si chetarono all’unisono.
Ormai del tutto sveglio, si accorse che aveva ancora l’occhio destro chiuso, ma il sinistro era utilizzabile. Guardò intorno, e notò sei sagome nell’oscurità. C’era un odore acidulo nell’aria, come di piatti sporchi lasciati ad incrostarsi per giorni. E alcool, ancora.
“Come ti senti?” chiese un’altra voce, ancora in italiano.
Come se aspettasse che qualcuno si mostrasse interessato, il suo stomaco grugnì. “Credo… ho fame” disse in spagnolo, e si stupì di aver risposto prima di informarsi sull’identità dei suoi compagni. Ormai ragiono anch’io come un derelitto, pensò.
Allo stesso modo in cui capiva senza troppa difficoltà l’italiano, loro sembrarono comprendere lo spagnolo. “Prendi” gli disse un altro, porgendogli qualcosa avvolto in una carta d’alluminio. Font percepì la presenza del cibo più che vederlo. Afferrò l’involto e lo rivoltò con un movimento frenetico: conteneva un ammasso di pane sbriciolato con alcuni bocconcini di carne di qualche genere. La sua consistenza impediva di mangiarlo con le mani, e Font se lo rovesciò direttamente in bocca.
“Grazie” borbottò con la bocca piena.
“Tutta salute!” esclamò il primo che aveva parlato, ridendo e assestandogli una pacca amichevole su una scapola. Il gesto provocò a Font un accesso di tosse, che gli fece sputare le briciole che ancora aveva in bocca. Gli uomini intorno a lui risero.
Ricomponendosi, Font trovò la forza di chiedere: “Dove sono?”
“Al centro del mondo, ragazzo!” rispose ancora quello della manata, e di nuovo rise fragorosamente.
Quello che invece doveva avergli offerto il cibo disse, con tono molto meno enfatico: “Siamo nei pressi di Porta Venezia.” Poi, nel notare che lo sguardo di Font non si era illuminato di comprensione, aggiunse: “Milano.”
Fu allora che Font riconobbe quella voce. Era quello che, poco prima di svenire, aveva sentito urlare “prendetelo”. Quelli erano i barboni che stavano intorno alla fontana, quelli da cui era fuggito in bicicletta per poi cadere. Allora, non l’avevano derubato. Per qualche ragione l’avevano preso con loro. Chiese conferma di quanto supposto, e a rispondergli fu di nuovo quello che parlava pacatamente: “Sì, ti abbiamo tirato su dopo che sei caduto. Non eri in buone condizioni, e non lo sei neanche ora. Abbiamo pensato che una sera al caldo ti avrebbe fatto bene.”
“Grazie” aveva mormorato, ma non era sicuro che l’avessero sentito. Stava cercando di assimilare l’idea di essere stato salvato, e non aggredito, da quei senzatetto.
“Riconosciamo una persona disperata almeno quanto noi” disse una terza voce. “Non potevamo lasciarti lì alla stazione a vomitare.”
“Questi”, continuò il barbone tranquillo indicando a turno i suoi compagni (adesso Font riusciva a scorgere nell’oscurità qualcosa di più delle sole sagome) “sono Romeo, Amedeo, Vandalo, Guglielmo e Abdul. E io sono Gianni. Gianni Greco.”
Sentendo quel riferimento alla patria di S4dith, Font sussultò. Il signor Greco dovette accorgersene, perché domandò: “Qualcosa non va?”
“No…” si affrettò a rispondere lui. Ma non sapeva se rivelare o no la sua missione. L’avrebbero preso per un’idiota? Volevano forse che lui rimanesse uno di loro, per sempre (per quanto quel sempre non fosse poi così esteso)? Aveva deciso, per il momento, di riservarsi per sé i suoi affari, anche perché, nonostante l’innegabile generosità, non era ancora sicuro di potersi fidare dei barboni, ma Gianni lo incalzò: “Cosa ci fa un giovane spagnolo come te a Milano? E sei arrivato fin qui in bicicletta?”
“Sono… in viaggio” disse frettolosamente.
“Di questo ce n’eravamo accorti, ragazzo!” lo apostrofò quello della pacca, Guglielmo. “Puzziamo ma non siamo stupidi.” E rise ancora.
“Non aggredirlo, Guje” intervenne Abdul, che non aveva ancora parlato. Si sentiva dal suo accento che non era italiano. Presumibilmente, uno dei tanti immigrati che si affollavano nelle grandi città. Ma a quanto pareva, lui aveva fallito nel trovare la sua fortuna. “Il ragazzo è stanco, e non sta bene.”
“Lascia stare, è troppo ubriaco per capirlo…” si intromise a sua volta Gianni. Poi, rivolto a Font: “Ma non farti mettere in soggezione da lui, capito? È solo che quando è alticcio strilla un po’, ma è un bravo ragazzo.”
“Tua madre me lo diceva sempre!” strillò appunto Giuglielmo, e riattaccò a ridere.
Gianni rispose solo con una scrollata di spalle. “Come ti chiami, giovanotto?”
“Font” rispose stavolta senza timore: non c’era pericolo a rivelare il suo nome. E poi quel Greco, quell’inaspettato segno del destino, sembrava un tipo a posto.
“Allora, Font” continuò lui, “vuoi dirci dove sei diretto?”
Font abbassò lo sguardo (cioè il solo occhio sinistro) cercando le parole giuste per negare loro quell’informazione.
“Io sono convinto” disse ancora Gianni, “che abbia qualcosa a che fare con… Grecia?”
“Come lo sai?” si lasciò sfuggire Font prima di rendersi conto che aveva appena ammesso che era in effetti così.
Gianni rise per la prima volta, con un suono morbido e, quasi, rassicurante. “Ho visto come mi hai guardato quando mi sono presentato. Diciamo che, col mio vecchio lavoro, ho sviluppato un buon intuito nel capire le persone.”
“Ma tu non hai mai veramente lavorato!” si fece sentire di nuovo Guglielmo.
“Perché tu?” chiese Romeo, con una voce che sembrava uscire dal naso, interrotta da strani singulti.
“Oh, io ho guidato camion per quindici anni!” si affrettò a precisare l’altro.
“Per favore, gente” disse col solito tono pacato ma fermo Gianni. “Font, qui, deve avere un mal di testa incredibile. Cercate di fare piano.” Sembrava estremamente… convincente. Abbastanza comunque da essere assecondato.  “Quindi, vai in Grecia?” domandò poi.
Font annuì, in imbarazzo per la sua trasparenza.
“Scommetto che stai andando a trovare una persona. Una ragazza. Vero?”
Annuì di nuovo, mentre sentiva che la gola gli si stringeva e l’occhio sano cominciava a pizzicargli. Per qualche ragione, sentiva il bisogno di piangere. Forse aveva solo bisogno di sfogare la fatica, la stanchezza, la sfortuna… e la fiducia che persone come S4dith, Lada e questi uomini sembravano riporre in lui. Era come se tutti confidassero nelle sue capacità, nella sua abilità di compiere una missione tanto assurda. E lui stesso, come aveva potuto pensare di imbarcarsi in questa faccenda? Era poco più di un ragazzino, non aveva mai realizzato nulla di concreto nella sua vita. E adesso, per uno stupido capriccio, voleva raggiungere l’angolo opposto del continente. Come gli era venuto in mente? Quante possibilità, in realtà, aveva di farcela? Con ogni probabilità si sarebbe ammalato e sarebbe morto lungo il tragitto, e la prima fase di quel declino era già cominciata. Era stato uno stupido, si era illuso di poter arrivare fino in fondo, ma adesso si rendeva conto che era troppo ingenuo e impreparato per una cosa di quelle proporzioni: viaggiare, contando praticamente sulle sue sole forze, per migliaia di chilometri, mentre la civiltà intorno a lui crollava ed il mondo si avvicinava inesorabilmente alla sua fine. Non ce l’avrebbe mai fatta. Non poteva farcela. Avrebbe fallito, era inevitabile.
E soprattutto, avrebbe tradito la promessa fatta a S4dith.
Scoppiò in lacrime. I barboni, che fino a quel momento avevano mantenuto tra di loro un parlottio sommesso, fecero subito silenzio. I suoi singhiozzi riecheggiavano nell’aria, dovunque fossero, e a ognuno sentiva il cuore salirgli fino alle tonsille. Gli occhi cominciarono ad emettere lacrime dense ed appiccicose che gli rigarono le guance, il naso gli si intasò completamente obbligandolo a respirare con la bocca, cosa che non faceva che aumentare i suoi attacchi di tosse, che gli bruciavano nel petto ed in gola. La testa prese a pulsargli ancora, martellando ad ogni suo respiro tra le pareti del cranio, come se cercasse di trovare una strada per uscire; anche le orecchie, all’interno, in profondità, cominciarono a dolergli.
Dopo alcuni minuti del suo pianto isolato nel silenzio innaturale della notte, Gianni gli appoggiò una mano sul polso e disse: “Non preoccuparti Font. Piangi pure, noi ci siamo abituati. Tutti piangiamo, all’inizio. Almeno, ti pulirai gli occhi.”
Osservando per un attimo i suoi compagni, Font vide che tutti sembravano contriti, lo sguardo basso e malinconico, come se pensassero a quanto avevano sofferto anch’essi. A quanto, anni prima, si erano comportati proprio come lui adesso.
“Mi dispiace” farfugliò tra i singhiozzi e i colpi di tosse. “Io non volevo…”
“Non devi scusarti” lo interruppe Gianni, ma tanto Font non sapeva di cosa scusarsi. “Riposati, adesso. Ne hai bisogno. E almeno per stasera, sarai al caldo. Noi cercheremo di non disturbarti. Pensa pure al tuo dolore, contemplalo, impara a comprenderlo. Scoprirai che puoi trarne una grande forza. È una cosa che tutti, soprattutto noi, abbiamo dovuto imparare.”
Vide che gli altri annuivano debolmente a quelle parole. Improvvisamente, come se quelle lo avessero seriamente ipnotizzato, si sentì terribilmente stanco, assonnato. La vista gli si appannò, e la testa cominciò a pesargli. Si addormentò nel giro di pochi secondi, appena in tempo per sentire Gianni che diceva ai suoi compagni: “Domattina, lo porteremo a prendere qualche pasta alla crema.”

-33
Per la terza volta di fila, Font si svegliò e non riuscì ad aprire gli occhi. Stavolta, però, la situazione sembrava peggiore: anche le palpebre dell’occhio sinistro rimasero incollate dopo che si fu stropicciato gli occhi. Emise un gemito di paura, e sentì che qualcuno intorno a lui si muoveva.
“Sei sveglio ragazzo?” udì la voce di Guglielmo.
“S-sì” balbettò lui, ancora spaventato. “Ma non… non riesco…”
“Calma…” sentì dire da qualcun altro, e poco dopo percepì qualcosa di tiepido che gli veniva dolcemente passato sugli occhi, presumibilmente un panno bagnato.
Pensare che quei barboni si stessero prendendo cura di lui lo disorientava, ma ne era profondamente grato. Se si fosse svegliato in quelle condizioni da solo, sicuramente sarebbe andato nel panico e avrebbe finito col finire in guai seri. Sentendo che la gelatina appiccicosa secca veniva rimossa, azzardò di nuovo aprire gli occhi: stavolta, il sinistro si dischiuse debolmente, mentre il destro rimaneva completamente sigillato.
“Meglio?” disse di nuovo la voce, e Font si ricordò che era quella di Amedeo.
“Sì… un po’” e come a contraddire le sue parole, un violento attacco di tosse gli esplose dal profondo della trachea, brucandogli in gola.
Guardando intorno con l’occhio semisano, notò che gli altri quattro del gruppo mancavano. Forse erano andati a cercare cibo, magari alla fontana della stazione centrale dove li aveva incontrati il giorno prima. Girò di nuovo lo sguardo intorno a lui, e si accorse che mancava anche la sua bicicletta.
“Dov’è?” biascicò, ancora in bilico tra sonno e veglia. “La bici…” forse quei barboni lo avevano ingannato, lo avevano tenuto con loro solo per avere il tempo di derubarlo, come aveva pensato fin dall’inizio.
No, è assurdo, intervenne nel corso di quei pensieri la sua parte razionale. Avrebbero rubato quello che volevano quando eri a terra nel tuo vomito. Invece ti hanno tenuto al caldo per una notte, ti hanno confortato e protetto. Non può essere così. Quella riflessione lo calmò, ed ancora di più lo tranquillizzò il pensiero di Greco, quel barbone saggio che aveva letto dentro di lui la sera prima. Non poteva essere un delinquente, lui.
“Dov’è la mia bicicletta?” chiese ancora, stavolta più chiaramente e senza insinuare nel suo tono una punta d’accusa.
“Gli altri sono andati a portarla in un posto sicuro” rispose Amedeo. “Non possiamo tenercela dietro tutto il tempo. Gianni ha detto che oggi ti portiamo a prendere le paste alla crema.”
Font si ricordò di aver sentito quelle stesse parole pronunciate da Gianni, poco prima di cadere nel sonno. E gli tornò in mente contemporaneamente anche quanto era stato male la sera prima. Fisicamente, era nelle stesse condizioni, o forse anche peggiori dopo un’ulteriore notte passata, se non al freddo, all’umidità; ma non si sentiva disperato come durante la crisi di pianto che lo aveva colto, atterrando le sue forze e facendolo sentire stupido, piccolo e stanco. Ma cosa intendevano quando parlavano di paste alla crema? Temeva di fraintendere l’italiano, o magari di non conoscere quell’espressione che poteva avere un significato particolare. Dal tono che usavano dicendolo sembrava che sottintendessero qualcosa di più del solo senso letterale, anche perché era improbabile che ci fossero bar aperti che elargivano cornetti gratis ai barboni.
“Hai fame?” domandò Amedeo.
Annuì.
“Tra poco mangeremo qualcosa. Aspettiamo che tornino gli altri. Intanto, se vuoi, bevi.” Gli porse una bottiglia d’acqua. Aveva un sapore ferroso ed era gelida, ma Font ne bevve una buona sorsata. “E così via in Grecia dalla tua ragazza, eh?” parlò ancora Amedeo, forse più per fare conversazione che per interesse. Guglielmo sembrava avere altro a cui pensare, perché fissava l’orizzonte con aria persa; era possibile che stesse smaltendo la sbornia della notte precedente.
“Sì, in un certo senso” rispose.
“E sei partito da?”
“Salamanca.”
Amedeo fischiò. “E’ un bel viaggio. Migliaia di chilometri, eh? Ma chi te l’ha fatto fare?”
Guglielmo sbottò in una risatina derisoria, e Font pensò per la prima volta che quella gente potesse essere all’oscuro di tutto: la Nube di Sirio, il conto alla rovescia, la morte di tutti. In effetti, se come era presumibile avevano vissuto per strada fin da prima dell’annuncio ufficiale della Nube, era possibile che non fossero mai stati informati: niente radio, niente tv, niente internet. Come potevano sapere?
Era una domanda delicata, ma non poteva far finta di nulla. Titubante, chiese: “Ma voi… sapete che tra un po’… tra un mese, cioè…” non riusciva a trovare le parole giuste per dar loro quella notizia. Sarebbe stato uno shock tremendo, come lo era stato per tutti, e non era preparato alle loro reazioni. Avrebbero potuto prendersela con lui.
“Cosa,” intervenne Guglielmo, “la Nube di Sirio? Certo che lo sappiamo. Te l’ho detto ieri: puzziamo ma non siamo stupidi.”
Quell’atteggiamento lo spaventò meno delle prime volte. Continuò: “Quindi, sapete che… è la fine del mondo?”
Amedeo annuì gravemente. “Certo, Font. Ma ci siamo abituati. Per noi il mondo potrebbe finire ogni giorno, e non farebbe differenza.”
Dopo quella risposta tra i tre calò un silenzio pesante, che si mantenne per diversi minuti, fino all’arrivo di Gianni e degli altri che erano andati a portare la bicicletta “in un posto sicuro”.
“Siamo pronti?” salutò Gianni con enfasi quando fu in vista del gruppo. Adesso che era giorno, Font riuscì a vederne i lineamenti con chiarezza per la prima volta. Poteva avere una sessantina d’anni, con radi capelli chiari ai lati e dietro la testa; aveva la fronte alta, spaziosa, ed il viso segnato dalle ordinarie rughe d’espressione di una persona di quell’età. Nonostante questo, non sembrava vecchio: i suoi occhi brillavano di una luce di vivacità, e le labbra sembravano tendere continuamente al sorriso.
“Il ragazzo è sveglio” rispose Guglielmo. “Possiamo partire anche subito.”
“No, aspettate…” si intromise Font prima che decidessero per lui. “Andare dove?” la sua voce era roca, ma cercava di parlare con fermezza. “Questo è il terzo giorno che sono qui a Milano… se avessi pedalato sarei già a Budapest, almeno. Non posso fermarmi ancora, vi ringrazio ma…”
Guglielmo lo interruppe con una risata. “E dove vorresti andare?”
“Devo arrivare ad Atene. E devo fare presto. Non posso lasciarla aspettare…” sentì che anche stavolta, pensando a S4dith in sua attesa e alla delusione che avrebbe provato, gli si formava un nodo in gola.
“Calma Font” disse Gianni, che ormai gli era arrivato davanti, a sua volta calmissimo. “Non puoi partire adesso. Non vedi in che condizioni sei? Se ti mettessi a pedalare e dormire all’aperto di notte, ti ritroveresti presto a non riuscire più a muoverti, verresti consumato dalla bronchite che hai già.”
Quella diagnosi spiattellata senza preavviso lo mandò in confusione. Bronchite? Davvero era così malato? E davvero era così stupido da non accorgersene? Gianni continuò il suo discorso, distraendolo dal corso dei suoi pensieri: “Noi non vogliamo tenerti qui prigioniero, sei libero di andartene quando vuoi. Ma se rimarrai con noi, potrai avere l’aiuto che ti serve per tornare in forze e ripartire. Peraltro, manca ancora più di un mese alla Nube, ed in bicicletta ti ci vorrà forse soltanto una settimana per arrivare in Grecia.”
Font lo osservò con l’occhio buono. Sembrava avere così ragione!
“Pensaci” disse ancora, con un cenno della testa.
Font ci pensò: era malato, se non aveva la bronchite era comunque vero che le sue condizioni erano tutt’altro che buone. Ogni mattina aveva difficoltà ad aprire gli occhi, respirava solo dalla bocca, e la gola continuava ad ardergli per la violenta tosse di cui era vittima. Inoltre, aveva ormai esaurito le scorte, e avrebbe dovuto passare parte delle sue giornate ad andare alla ricerca di cibo, attività nella quale non si sentiva ancora abbastanza abile (continuare a vivere mangiando feti di passeri non era una buona prospettiva). In bicicletta, era vero, avrebbe impiegato poco più di una settimana a percorrere i meno di 2000 chilometri residui, anche pedalando con tranquillità per meno di metà giornata. Per cui, forse, poteva permettersi di trattenersi lì, un altro giorno, o due. Magari anche tre. Avrebbe riacquisito la salute, si sarebbe procurato viveri per il viaggio, e magari avrebbe ottenuto da quel gruppo qualche prezioso consiglio per la sua sopravvivenza nelle strade. Senza contare la compagnia, che avrebbe ben presto rimpianto.
Fissò Gianni con convinzione: “Va bene. Resto.”
Intorno a lui scrosciò un applauso di entusiasmo ed incoraggiamento. Solo Gianni si limitò a guardarlo con un sorriso compiaciuto. Quando gli applausi si furono esauriti, disse: “Bene. Allora, andiamo a prenderci un paio di paste alla crema.”
Font fece per chiedere cosa significasse quell’espressione, ma fu travolto e trascinato dal gruppo che si metteva in movimento. Uscirono dall’edificio abbandonato (sicuramente già da prima della notizia della Nube) in cui avevano passato la notte e si diressero in strada. Sembravano tutti perfettamente a conoscenza della loro meta, e probabilmente era così. Fuori, pur essendo già giorno, il sole non aveva ancora cominciato a dissipare la fine nebbiolina che aleggiava dovunque. E per le strade non si vedeva nessuno, a parte loro; anche il silenzio era insolito, surreale. Ma Font pensò che, anche se i palazzi lì intorno fossero stati abitati (perché dubitava che tutti fossero fuggiti dalla città) gli inquilini si sarebbero comunque concessi il lusso di svegliarsi in tarda mattinata.
“All’inizio non era così, sai?” riprese a parlare Gianni, rivolto a lui. “I primi tempi dopo la notizia della Nube di Sirio, era l’opposto: traffico, caos, gente che fuggiva in ogni direzione. Un’atmosfera invivibile, anche più del solito. Ma nel giro di una settimana, la situazione si è stabilizzata. Ormai quasi tutti sono arrivati dove volevano… tu ovviamente, sei un’eccezione, Font.”
Font esibì un sorriso cortese ma non troppo sicuro di sé.
“E’ la situazione ideale per noi” aggiunse Amedeo. “La città è nostra.”
“Mai capitato di bere alla fontana della stazione di prima mattina senza sentirsi malignamente osservati” confermò Abdul.
“Ci prendiamo la nostra rivincita” disse Gianni con una scrollata di spalle. “Adesso che nessuno sa più che farsene del mondo, noi ne approfittiamo. Sappiamo che durerà poco, ma tanto vale godersela fino ad allora.”
“Ma perché non vi stabilite in una casa, al riparo, e vivete quel che rimane come persone… ordinarie?” chiese Font a quel punto.
“Non ne abbiamo bisogno” rispose prontamente Gianni, che ormai era chiaro essere, almeno ufficiosamente, il leader del gruppo. “Cosa ce ne facciamo? Il riparo lo abbiamo sempre trovato, il cibo in questi giorni non manca… e se stai insinuando che avremmo bisogno di un bagno, potrei suggerirti la stessa cosa” concluse con un ghigno.
Font arrossì per un istante, ma si era abituato a quel modo di fare del barbone: non era vera animosità la sua, ma un’espressione della confidenza nei suoi confronti, come si conoscessero da anni. “E adesso” chiese ancora, “dove stiamo andando?”
“Tosto il ragazzo!” esclamò Guglielmo, poi cantilenò come un bambino che canzona un altro: “pasteallacremapasteallacremapasteallacrema…”
Gli altri risero, e solo quando si furono calmati, Gianni guardò Font come a dire “hai avuto risposta”.
“Ok” insistette, “ma che significa? Stiamo andando… a fare colazione? In un… bar?”
Di nuovo i suoi compagni risero di gusto, ma anche stavolta non sembrò notare malizia nella loro ilarità: probabilmente erano divertiti dalla usa ingenuità, ma non lo consideravano uno stupido. O almeno così credeva.
“Paste alla crema è una metafora” spiegò infine Gianni.
“Ovviamente ideata dal dottor Greco!” intervenne Guglielmo. Font si chiese per un attimo se “dottore” fosse inteso in senso letterale: possibile che il signor Greco fosse laureato, e magari avesse esercitato, a suo tempo, una professione di tutto rispetto? Non si sentiva di eslcuderlo, malgrado la misera posizione in cui si trovava adesso, il dottore.
Gianni continuò come se non fosse stato interrotto: “ed in seguito ti spiegherò l’intero contesto da cui è tratta. In ogni caso, il concetto è questo: quando vai in pasticceria, e ti prendi una bella pasta da mezzo chilo, infarcita di crema, glassata e con i chicchi di cioccolata, provi un desiderio immenso per quella piccola cosa ed una soddisfazione indicibile quando la assapori. Questo è tutto quanto pensi prima e durante. Ma dopo cominci a sentire quel vago senso di colpa che proviene dalla consapevolezza di esserti concesso ad un vizio: sai che quel dolcetto richiederà ore e sforzi considerevoli per essere digerito, sai che in fondo potevi farne a meno e spendere in modo migliore quei soldi, sai che alla fine da quel pasto non ne verrà niente di buono, anzi: magari un brufolo, magari un attacco di diarrea, magari oltrepasserai quell’esile limite che consideravi la soglia tra il ‘sono in forma’ e ‘sono grasso’.”
“E quindi, al di fuori della metafora, cosa rappresenta?”
“Quando andiamo a prenderci qualche pasta alla crema, stiamo per fare qualcosa di cui, in seguito, ci pentiremo. Può essere semplicemente rubare da mangiare nel magazzino di un ristorante, forzare una macchina per dormirci dentro, bruciare dei rifiuti per riscaldarci. Tutte quelle cose che ci sono necessarie, di cui non possiamo fare a meno, ma che vanno contro la nostra ‘coscienza’. E nonostante la nostra percezione del ‘male’ sia stata influenzata e modificata da anni di vagabondaggio, sentiamo comunque che quello che stiamo facendo arrecherà, anche se a qualcun altro, molti più danni dei benefici che ne trarremo.”
“Ma un pasticcino” mormorò Font, riflettendo, “è comunque un lusso, qualcosa di cui si potrebbe fare a meno. Cercare cibo, riparo e calore invece è necessario per voi.”
“Esattamente. Infatti, come ti ho detto, la nozione di pasta alla crema è mutuato da un differente ambito, e si identifica con le nostre scorrerie solo per analogia. Peraltro, lo ritengo comunque adatto: perché in fondo avremmo decine di modi per procuraci quello di cui abbiamo bisogno, senza danneggiare nessuno. Ma scegliamo quello più semplice, e, spesso, più divertente. Scommetto che anche tu, nel viaggio che hai compiuto finora, ti sei concesso un paio di pasticcini.”
Il ricordo della bottega che aveva razziato (anche se praticamente per ultimo) gli tornò alla mente. “Credo di sì” affermò cercando di assimilare quel concetto. Le paste alla crema erano necessarie a gente come loro, tanto per la sopravvivenza quanto per il morale. Non avrebbero retto a quel tipo di vita, senza concedersi “lussi” del genere, per quanto anche quel tipo di lussi fossero inscindibilmente legati alle loro necessità primarie. Ma se si poteva trovare cibo con una spedizione alla SWAT piuttosto che rovistando nella spazzatura, era sicuramente un’occasione da cogliere: ne andava del morale e dell’equilibrio di tutti loro.
E, ormai, tutto ciò valeva anche per lui. Era un barbone errante: tutti i suoi averi in uno zaino; il bene più prezioso una bicicletta; la salute cagionevole. Derelitto, come i suoi attuali compagni.
“E, precisamente, da dove proviene il concetto originale di pasta alla crema?” chiese emergendo da quelle riflessioni, mentre ancora il gruppo si muoveva verso una meta a lui ignota.
“Una lezione al giorno, Font” rispose sorridendo Gianni. “Per oggi, pensiamo solo ad oggi. È solo un caso, ma in questo momento le nostre paste alla crema coincidono con la colazione.”

-30
Un grumo budinoso di catarro scaturì fuori dal profondo della gola di Font durante uno dei suoi numerosi attacchi di tosse. Lo vide roteare su se stesso, appallottolandosi e ristendendosi, come se avesse due pesi alle estremità, per poi spiaccicarsi al suolo con un sflot. Era di un verde acceso, quasi fosforescente. Non riuscì a smettere di fissarlo, le iridescenze create dai raggi del sole sulla sua superficie, quelle strane geometrie frattali lo attiravano.
Fu Amedeo a scuoterlo da quell’imbambolamento: “Ehi, si va!”
Font annuì e si unì ai suoi sei compagni, che già si stavano incamminando. La geografia di quella città continuava a sfuggirgli, e non era sicuro di riconoscere luoghi già visitati in precedenza. D’altra parte, spesso si muovevano di notte, e ancor più spesso non era abbastanza lucido per fissare nella memoria i posti che aveva già visto. Ma anche se non sapeva dove si trovava, conosceva l’obiettivo di quella spedizione: medicine. Qualche antibiotico per lui, magari un’aspirina per il mal di testa, qualche pasticca per la gola… tutto ciò che avrebbe potuto aiutarlo a rimettersi in sesto.
Le sue condizioni erano leggermente migliorate, grazie al riposo, al cibo ed al calore che in quei giorni era riuscito ad ottenere. Per lo meno, l’occhio riusciva quasi ad aprirsi, pur rimanendo lacrimoso ed appannato, e adesso quando tossiva sputava boli di muco, piuttosto che sentirsi la gola raschiata da carta vetrata incandescente: forse era un segno che la bronchite diagnosticata da Gianni [il dottor Greco, magari?] stava retrocedendo.
Come percependo di essere stato evocato nella sua mente, il barbone gli si avvicinò con espressione sorniona. “Stai migliorando, vero?”
“Credo di sì. Ma qualche medicina mi farà sicuramente bene. Mi sento ancora abbastanza debole e stordito. La testa…” gesticolò per indicare la sensazione di rintontimento che non lo abbandonava quasi mai, il pulsare febbrile che sentiva in fondo alle orecchie e nelle tempie. “Vi ringrazio per l’aiuto che mi state dando” aggiunse poi.
“Non avevamo appuntamenti oggi” intervenne Romeo con la sua parlata nasale e strombazzante, suscitando le risa di alcuni di loro.
“Come ha appena detto, non avevamo niente di meglio da fare. Siamo tutti riposati, sazi e in pace col nostro spirito, quindi non ci sono altre priorità” confermò Gianni.
“Ma stiamo per… prendere delle paste alla crema?” chiese un po’ esitante Font, non sapendo se i barboni lo avrebbero giudicato stupido per quella domanda, pensando che ormai avrebbe dovuto capirlo da solo.
“Bella domanda” rispose Gianni, fugando i suoi timori. “Per tradizione, in tempi normali, questa sarebbe comunque una missione da paste alla crema. Peraltro, questi sono tempi tutt’altro che normali. Diciamo che sono paste alla crema nella forma, nell’etichetta, ma non nella sostanza.”
“Quindi… nemmeno le altre volte erano vere e proprie paste alla crema?” chiese ancora Font, riferendosi alle scorribande dei giorni precedenti. I barboni lo avevano portato sempre con loro, anche se non avevano richiesto il suo intervento data la sua saluta cagionevole. Erano andati alla ricerca di cibo in appartamenti abbandonati, avevano cercato lenzuola e coperte da bruciare durante la notte con la benzina che avevano trafugato, e si erano appropriati di innumerevoli paccottiglie che avevano trovato in giro. Gianni in particolare sembrava affascinato dagli oggetti che si trovavano nei pressi dei cassonetti della spazzatura, anche se naturalmente non poteva portare con sé tutto quello che attirava il suo interesse.
“Alla luce del ragionamento che ti ho appena snocciolato, non posso che affermare che vale la stessa cosa: erano paste alla crema come tipo di azione, ma avevano perso la loro duplice natura di azioni ‘cattive ma necessarie’.”
Per alcuni momenti il gruppo proseguì in silenzio, poi Gianni ricominciò a parlare, ancora rivolto a Font: “Il che mi ricorda che avevo promesso di spiegarti l’originale contesto nel quale sono nate le paste alla crema.”
Font annuì, entusiasta. Non aveva voluto chiedere per non apparire pedante, ma sperava di udire, prima o poi, quella storia.
“Bene. Questa è naturalmente una mia personalissima idea, una teoria che ho elaborato personalmente ma che non pretendo di imporre a nessuno…”
“E ci risiamo!” si intromise Guglielmo, ridacchiando. “Ora riparte con le sue lezioni!”
Con un sorriso, Gianni continuò la sua spiegazione: “Le persone che incontriamo nella vita, Font, si possono dividere in tre categorie: cani, specchi, e paste alla crema.”
Le persone? si meravigliò Font. Non riusciva a cogliere il nesso. Ma Gianni riprese subito, non lasciandogli il tempo di riflettere: “So che sembra una distinzione molto forzata, ma a suo modo si può adattare in ogni caso. Le sfumature sono molteplici, ma alla fine tutti quelli che ci stanno intorno possono essere classificati in questo modo. I cani sono quelli che ci abbiano contro, che ci infastidiscono, che ci mettono i bastoni tra le ruote, che ci spaventano e, a volte, feriscono. Ma nello stesso tempo, ci insegnano ad essere prudenti, a controllare gli impulsi, e spesso, disturbandoci e facendoci paura, ci tengono al sicuro da pericoli più grandi, magari cani più forti, che stanno dietro di loro. Gli specchi al contrario sono quelli che appaiano simili in tutto e per tutto a noi, quelli che ci sono affini e in cui ci identifichiamo. Quelli con cui andiamo d’accordo, ad un livello più profondo della semplice simpatia: una sintonia, una comunione d’intenti. Mostrandoci un’immagine che riconosciamo come nostra, ci aiutano a capire quelli che sono i nostri stessi difetti, ma a volte, proprio per questo, ci feriscono per la loro onestà: uno specchio non nasconde gli aspetti negativi di noi stessi, e questo può fare male, può indurci a pensare che la persona in questione sia in realtà un nemico. Per cui, anche se lo specchio ha fondamentalmente una funzione positiva, è difficile riuscire ad identificarlo ed accettarlo completamente, in quanto questo comporta l’accettare completamente noi stessi. Le paste alla crema, infine, sono quelle persone piacevoli, che solitamente ci piace avere intorno, perché la loro presenza è, soprattutto, confortante. Le paste alla crema ci divertono, ci danno soddisfazione, e siamo contenti di averle con noi. Ma, come ormai avrai capito da solo, riadattando l’analogia che già conosci, le paste alla crema, col tempo, sono destinate a farci sentire in colpa, a deluderci, a lasciarci da soli a rimuginare sui nostri sbagli, perché una volta sfruttata per trarne piacere, una pasta esaurisce la sua funzione.”
Continuando a camminare, Font teneva lo sguardo fisso sul dottor Gianni. Le sue parole gli erano parse limpide, comprensibili in un modo naturale, come sempre gli capitava sentendo parlare quel barbone. Era come se avesse soltanto dato forma a pensieri che aveva già formulato e tenuto in serbo, incapace di assimilare, tempo addietro.
“Ad esempio”, disse cercando di trovare una conferma a quanto aveva capito “un’amante è una pasta, giusto?”
Gianni non sembrò convinto. “Se intendi un’amante clandestina, in generale potremmo dire di sì, ma è un esempio banale, uno stereotipo. In senso ‘tradizionale’ l’amante dalla quale trai piacere per poi sentirti in colpa per aver tradito è un esempio perfetto di pasta alla crema. Ma non è detto che la percezione della categoria sia conforme a quella socialmente accettata. Viceversa, un’amante può essere uno specchio mentre la moglie è una pasta. Non ci sono regole assolute. E comunque, nessuno dei tre è più importante degli altri: certo, una pasta è più ‘piacevole’ di un cane, ma no per questo più utile, perché tutti hanno una loro funzione, un lati positivi e negativi che non possono essere scissi dalla loro natura, capisci?”
Font annuì: sì, aveva sentito anche lui che il suo esempio non calzava in pieno, e gli era risultato naturale pensare che nessuna delle tre categorie fosse del tutto dannosa. Cani, specchi, e paste… rifletté, provando a collocare in modo approssimativo le persone che avevano influenzato la sua vita, cercando di capire se fosse mai stato dominato da cani, o illuso da paste…
“C’è anche da considerare” riprese a parlare Gianni interrompendo i suoi pensieri “che una persona non rimane necessariamente in una categoria per sempre. Le situazioni cambiano, si mescolano, sorgono nuove relazioni, nuovi sentimenti, e quello che ti aveva sempre messo soggezione, il tuo cane più odiato, può trasformarsi in una pasta alla crema. Perché come ti ho già detto, non esiste nessun riferimento assoluto, è tutto mediato dalla percezione che tu hai della persona. Anche se essa ovviamente si comporta in un determinato modo, alla fine sei sempre tu a rispondere come credi, e di conseguenza a determinare la sua natura. E non è per niente facile, spesso si sbaglia.”
Font stava per obiettare qualcosa, ma anche stavolta Gianni lo precedette, alzando una mano per indicargli di fermarsi: “E so cosa stai per dire: se la definizione dipende interamente dalla tua percezione, non puoi sbagliarti in ogni caso, perché sei tu a decidere dove collocare, e la persona semplicemente cambia categoria. Ma non è così semplice. Se comincerai ad applicare questa classificazione, ti potrà capitare, in seguito, di capire che quello che avevi definito in un modo era in realtà qualcos’altro, ma che non è lui ad essere cambiato, eri tu a non aver capito.”
“E capita così di frequente?”
“Abbastanza, se hai la pazienza di tenere conto di queste distinzioni. Un esempio forse non del tutto calzante, potrebbe essere quello della percezione che si ha da giovani, da adolescenti, dei propri genitori, o professori, o comunque figure autoritarie adulte: ripensando a come li consideravi, probabilmente ti verrebbe di classificarli come cani. Ma, se già adesso (mi sembri abbastanza adulto) cerchi di dar loro una collocazione, probabilmente ti sentirai di dargliene una differente. Naturalmente, salvo casi eccezionali di veri cani in famiglia.”
“Io avevo un cane in famiglia! Un labrador!” esclamò intromettendosi di nuovo Guglielmo. Stavolta rise anche Gianni.
Riprendendosi dopo quella piccola parentesi, Gianni continuò a spiegare: “Tutti sono classificabili, Font, ma non è detto che sia un bene riconoscere queste posizioni. Non cercare di ossessionarti col pensiero di attribuire un’etichetta a chi ti sta intorno, per programmare così le tue reazioni. Peraltro, identificare le varie tipologie può aiutarti a cogliere gli aspetti positivi di ogni personaggio.”
La lezione sembrava essere terminata, poiché Giani smise di parlare e torno a guardare davanti a sé. Le strade erano ancora deserte, la città sembrava dormire, e Font si chiese come fosse possibile: dove poteva essere finita tutta la gente che lì ci viveva? Si erano semplicemente volatilizzati? Eppure, anche se fosse stato così, da qualche parte dovevano essere andati… il mondo non poteva apparire così desolato in tutti i suoi angoli.
“Prevedibile” disse in mezzo al silenzio Amedeo. “La farmacia è già stata razziata. Ma qualcosa deve essere rimasto.”
Font si accorse solo allora che erano arrivati alla loro destinazione. Una croce di lucine verdi lampeggiava appena visibilmente nella luce del giorno, alcuni metri più in alto della porta. La serranda metallica era stata forzata in alto, e la porta a vetri era stata sfondata. Scatole e flaconi erano sparsi sul pavimento, una scena che ricordò a Font di quel negozio in cui aveva preso le sue scatolette di carne, due giorni dopo la sua partenza, insieme a quella torta alla fragola in polvere.
Ripensando a quel pacchetto, che nonostante tutte le peripezie ancora portava nel suo zaino, il suo pensiero corse a S4dith, con la quale aveva previsto, allora, di mangiare la torta. Aveva creduto che sarebbe arrivato in pochi giorni, invece questo era già il suo… da quanto tempo era in viaggio?
E S4dith lo stava aspettando ancora? Atene era ancora a migliaia di chilometri da lì. Ma Gianni aveva avuto ragione, quando era stato preso in custodia dai barboni: doveva rimettersi in forze. Poi, sarebbe venuto il momento di tornare a pensare a pedalare il più possibile.
S4dith, mormorò dentro di sé, cullando il suo pensiero al suono virtuale che quella parola evocava nella sua mente. Cane, specchio o pasta alla crema? si chiese.

-27
“Beh, allora” disse Font, e quasi subito sentì una fitta stringergli il petto: si sarebbe messo a piangere, ne era sicuro. “Addio…”
In quello che era l’inizio del nono giorno della sua permanenza a Milano, si sentiva decisamente meglio di quando era arrivato. Aveva combattuto e sconfitto le radici della bronchite che stava per coglierlo, grazie anche a qualche razione di antibiotici che erano riusciti a racimolare in giro, e adesso si sentiva pronto a rimettersi in viaggio. Per quanto potesse sembrare assurdo, aveva mangiato di più e più variamente vivendo in mezzo ai barboni che nelle prime fasi del suo viaggio. E, forse, aveva imparato anche qualcosa da loro.
“Grazie di tutto” disse ancora, andando a stringere la mano a turno ad ognuno dei sei.
“Divertiti con tua ragazza” disse Abdul ricambiando il saluto.
“Sono sicuro che ce la farai” commentò Romeo.
“Sei solo un naccherino ma hai un po’ di palle” si complimentò Guglielmo mollandogli un cazzotto sulla spalla.
“Buona fortuna” gli augurò Vandalo.
“La strada è ancora lunga” constatò Amedeo, “ma puoi farcela. Hai dimostrato di saperti adattare.”
“Beh, arrivederci” disse semplicemente Gianni, stordendolo con quel saluto. Notando la sua confusione, rise col suo solito confortante suono, e spiegò: “Oh, non ho intenzione di seguirti! Ma chi lo sa come possono evolversi le cose… non me la sento di dirti addio.”
Font annuì. “Non so come avrei fatto senza di voi” e di nuovo si accorse che stava per crollare. “Mi piacerebbe poter fare qualcosa per…” la voce stonò e si ruppe sull’ultima parola, e fu costretto ad interrompersi. Gli ultimi strascichi di raffreddore gli intasarono all’istante il naso, e dovette tirare su. “Scusate, non volevo…”
“Font” lo chiamò Gianni, e aspettò che lui gli rivolgesse lo sguardo per continuare: “Non sentirti in colpa. Non puoi fare niente per noi, e noi non abbiamo bisogno di niente. Questa è la nostra vita, e hai visto anche tu che siamo felici così. Non è colpa tua se il mondo sta per finire”
A quell’ultima frase, come se davvero Font dentro di sé avesse pensato che potesse essere così, scoppiò in lacrime. Riuscì ad abbozzare solo qualche sillaba, ma non disse niente di significativo.
I sei barboni gli si strinsero intorno, e Amedeo gli appoggiò una mano sulla spalla per fargli forza. “Su, su…”
“Tutti, Font,” proseguì Gianni come se non fosse stato interrotto dal pianto “pensiamo almeno una volta nella vita che sia tutta colpa nostra. Che la colpa di tutto ciò che non va nel mondo intero possa risalire alla fine a noi: perché non facciamo abbastanza, perché non siamo abbastanza. Sentiamo che se solo volessimo potremmo cambiare le cose, ma non ne abbiamo la forza. E ci sentiamo in colpa, dei miseri piccoli umani che dovranno trascinare il proprio fardello per decenni e decenni, senza speranza di redenzione.” Fece una pausa, poi proseguì, con un tono che mai prima d’ora Font gli aveva sentito usare: non era la solita parlata convincente, della persona che pur non essendo più saggia riusciva a plasmare con le parole tutte quelle sensazioni che era difficile afferrare; “Vuoi sapere”, disse in quel modo. Era più come se… “quando è stata la prima volta che io mi sono sentito in colpa, per tutto?” sì, era così: Gianni era commosso, quanto e più di Font. Non stava piangendo, non ancora, ma aveva gli occhi indiscutibilmente lucidi, la voce malferma.
Non aspettò la risposta di Font, e cominciò a raccontare: “Avevo tredici anni. Fu allora che mia madre mi spiegò le origini di uno dei miei nomi: Alessandro. E’ una cosa che risale a quando sono nato, e mi raccontò com’era successo: era un 18 Marzo di alcuni anni fa. Pieno centro di Firenze. Via degli Alfani. Una clinica che oggi non esiste più. Mia madre stava per darmi alla luce, che poi luce non era, essendo le una e mezza di notte, e accanto a lei un'altra madre stava per partorire il suo bambino. E io zampettai fuori incazzato e urlante come ogni neonato, mentre l'altro quando uscì non zampettava affatto, non piangeva, era livido e inanimato. Morto. Io non potevo ovviamente capire quanto succedeva, ma quando me lo raccontò mi sono figurato scena, come ho continuato a figurarmela per tutta la vita: una madre felice, col suo bambino sul petto, e un'altra disperata, a cui avevano strappato dalla pancia la vita stessa. Un padre fiero del suo seme e un altro abbattuto come un soldato di prima linea buttato allo sbaraglio oltre la trincea. La gioia della mia nascita oscurata dalla tragedia di una morte inaspettata, cattiva, pronta a colpire uno dei due bambini di quella notte. Una morte che toccò a me, ma toccò a lui, ad Alessandro. Così si sarebbe chiamato. Quindi Alessandro divenni io. I miei genitori decisero di darmi anche questo nome per far vivere in qualche modo colui che non era mai nato. Il padre di quel piccolo sfortunato eroe di un'unica battaglia fu così grato di questo che volle farmi da padrino al Battesimo. Io non potevo capire, ma oggi vedo tutto con chiarezza, e sono dentro all'anima di quell'uomo. Immagino come mi guardasse, con quali contrastati sentimenti mi augurasse ogni bene. Quanto pianto inondasse i suoi occhi. Vedo le sue mani tremanti... [e mentre diceva questo Font notò come anche le sue mani adesso tremassero vistosamente] cosa può aver pensato, secondo te, quell’uomo? Quel… padre? Poteva definirsi tale? Con che coraggio io ero venuto al mondo, io e non suo figlio, che diritto avevo di vivere? Come poteva amarmi, ma come poteva odiarmi? Per lui incarnavo tutto l’amore che avrebbe profuso e tutto il dolore che avrebbe sopportato. E quando mia madre mi ha raccontato tutto questo, quando ho saputo… [si interruppe per alcuni secondi, con le lacrime che ormai avevano straripato dagli occhi lucidi] mi sono sentito in colpa. Ho sentito di non meritare niente di tutto questo. Di non aver fatto abbastanza per poter presentarmi davanti a quel padre senza implorare il suo perdono. Questa è stata, Font, la prima volta che mi sono sentito colpevole di tutto il male del mondo, e ancora oggi, dopo decenni, cerco inutilmente di redimere il mio peccato originale. Ma non posso, e lo so bene.”
Si fermò e guardò Font negli occhi. Stava piangendo, ma non sussultava. Font al contrario era riuscito a riguadagnare controllo: la pena che lo aveva colto, che gli aveva fatto uscire le prime lacrime, si era totalmente dissolta al confronto con quella che Gianni doveva provare, ogni giorno. Adesso era triste per lui, per quell’uomo che in così poco tempo gli aveva insegnato così tanto e che per la prima volta gli appariva per quello che era, nel profondo: un uomo, appunto. I suoi cinque compagni di avventure dovevano essergli legati da un legame simile, ammaliati dal rispetto che nutrivano nei suoi confronti. Com’era possibile che una persona del genere diventasse un misero barbone, vivesse ai margini della società e tuttavia continuasse a dispensare lezioni di vita? Gli venne allora in mente che, probabilmente, non era caduto in disgrazia per qualche motivo, non era stato forzato a vivere in quelle condizioni: aveva scelto quella strada.
“Perché è così” riprese a parlare Gianni senza nemmeno preoccuparsi di asciugare le gocce che gli rigavano silenziosamente le guance. “Tutti ci sentiamo in colpa, Font. E la cosa terribile è che non abbiamo modo di smentirci: potrebbe davvero essere tutta colpa nostra. Non c’è modo di provare il contrario.”
Font sentì come se avesse subito un colpo alla bocca dello stomaco: gli mancò il fiato per alcuni secondi, e perse il filo dei suoi pensieri. Lo riguadagnò subito dopo, ma era come se fosse caduto addormentato all’improvviso e si fosse risvegliato nel mezzo di un sogno surreale. Era davvero successo tutto quello? Si trovava davvero in Italia, a parlare dell’afflizione universale dell’uomo con un barbone filosofo, in viaggio verso la Grecia per incontrare S4dith mentre una tremenda nebulosa di morte si avvicinava per spazzare via ogni traccia di vita dal pianeta?
Sì, naturalmente. Era tutto vero, com’era vero che aveva già percorso almeno 1500 chilometri, che aveva patito la fame, che aveva rischiato di venire stroncato da una bronchite… e che tra poco si sarebbe rimesso in viaggio.
Ed a ricordargli che anche i suoi amici barboni non erano una sua invenzione, Gianni continuò con il suo discorso: “Ma non c’è nemmeno modo di sapere se è colpa nostra. Resteremo col dubbio, per sempre, Font. Dobbiamo convivere con esso, e come ti ho detto giorni fa, imparare a trarne forza. Sfruttare il dolore della nostra situazione e tirarne fuori qualcosa di… dignitoso, per lo meno. Buono, magari.”
Font annuì, come ipnotizzato.
“E per te, l’unica cosa buona da fare adesso è raggiungere Atene, raggiungere chi ti sta aspettando. Deluderesti lei e noi se rimanessi qui.”
“Lo so.” Riuscì finalmente a sillabare.
“Per cui, capisci che non devi sentirti in colpa per noi. È un peso di cui puoi fare a meno, e dovrai rimanere il più leggero possibile per affrontare il cammino che ancora hai davanti.”
“Sì.”
“Allora, arrivederci, Font.” disse infine con tono solenne Gianni, senza compiere alcun gesto per accompagnare quell’ultimo saluto.
“Arrivederci” rispose lui, e per qualche motivo sorrise.
Poi montò in sella, si allacciò il casco, controllò la marcia inserita e pedalò.


 
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